Ci sono tre caratteristiche che definiscono la pratica dell’Aikido.
La prima è la capacità di esprimere potenza. La seconda è saper relazionarsi con quanto ci circonda, cioè la saggezza. La terza è la compassione. Tutte le Arti Marziali offrono in qualche modo una strada per le prime due. La particolarità dell’Aikido è aggiungere la compassione. Se un praticante ha queste tre caratteristiche, a me non importa come esegue shihonage: per me va bene così. (Patrick Cassidy)
I perché prima dei come
Partecipare a un seminar condotto da un insegnante di Aikido esperto e di grado molto elevato è sempre un’esperienza che in qualche modo ti cambia. La profondità della sua esperienza mette in luce aspetti della pratica che non hai ancora notato, o che non hai ancora consolidato. Esperienze di questo tipo sono fondamentali perché testano chi sei, mettendoti in discussione.
Ed è proprio sui perché, sulle motivazioni personali che ci spingono a dedicare tempo ed energie alla pratica, che Patrick Cassidy ci ha invitato a farci delle domande.
Domande che nel corso della diciannovesima edizione dell’Evolutionary Aikido Seminar presso Hara Kai Dojo di Torino, hanno attraversato tutto il fine settimana.
Molto spesso i seminar di Aikido si riducono a un certo numero di ore in cui si eseguono tecniche su tecniche. Spesso sono guidati da insegnanti validi ma, di fatto, dopo un po’ i partecipanti mettono il pilota automatico. L’esperienza si riduce nel fare.
Il senso di frequentare momenti di alta formazione è -o dovrebbe essere- andare oltre la pura ripetizione. Per quella c’è il lavoro quotidiano al Dojo.
Andare oltre
Nelle quattro sessioni di lavoro, la proposta si è sviluppata in un percorso tecnico (risposta su un attacco veloce), in un accurato lavoro di percezione sulle controtecniche e infine una progressione, facilitata dal lavoro col jo, sulla capacità di connessione, di radicamento e di sradicamento del compagno.
Tutti questi aspetti sono ampiamente vivisezionati dal programma tecnico. Ed è qui l’obiettivo, alto, dell’insegnamento.
Costringere il compagno di pratica a muoversi, dominarlo, è relativamente semplice. Il tutto si riduce a una questione di forza e di dolore inflitto. Fintantoché si è più forti di quello che non è più un compagno di pratica ma un avversario, il gioco funziona. Più forti, più tecnici, più spietati.
Ma quante articolazioni bisogna lussare? Quanti interventi a ginocchia, anche, spalle bisogna sopportare prima di capire che questa è una visione parziale?
E’ possibile andare oltre? Vogliamo davvero andare oltre?
La natura della potenza
La proposta didattica di Patrick Cassidy è, letteralmente, disarmante. Là dove il paradigma più diffuso è l’utilizzo esclusivo della forza, la sua proposta mette al centro il costante ascolto e l’utilizzo integrato di ciò che non è forza ma potenza.
Non è immediato comprendere la differenza e la via maestra è l’esperienza diretta, fisica. Sentirsi risucchiato dalla propria posizione radicata e sentirsi completamente rispettato è un’esperienza non comune.
Smuovere l’equilibrio del compagno senza la minima contrazione, senza sforzo, è qualcosa di reale, eppure difficilmente descrivibile a parole.
E’ difficile tradurre in modo pieno il termine usato da Patrick Cassidy, power. La potenza potrebbe avere una semantica in qualche modo oscura, prevaricatrice. Potrebbe essere nulla più che un sinonimo di forza.
Potenza è mettere in atto in modo chiaro, risoluto, un’intenzione. Potenza è poter passare dall’io al noi. E’ stupirsi dell’efficacia di un principio che muove l’altro perché io per primo ho accettato di muovermi. E’ custodire e coltivare la connessione. E’ scoprire che saper sentire l’altro e trattarlo come parte di noi è il principio reale della compassione. L’uso compassionevole e creativo della potenza costruisce la saggezza. Una saggezza fisica, fatta di conoscenza accurata delle leggi della biomeccanica e del programma tecnico. Una saggezza ovviamente etica, fatta di comportamenti dettati non dalla forma ma dalla sostanza che nasce da ogni relazione.
Tornare sulla Terra
I bravi insegnanti ti fanno sperimentare la loro prospettiva in modo tale che tu possa comprendere il loro messaggio in modo diretto. Sembra tutto semplice. Perché, di fatto, lo è.
Quando poi provi a mettere in pratica quanto ti hanno mostrato succedono solitamente quattro cose: riesci e ti stupisci; riesci una volta ogni tanto; non riesci; non ti rendi conto che non stai riuscendo, ti rifugi in quello che sai fare e sei sinceramente convinto non solo di aver capito ma anche di praticare come ha fatto vedere lui.
In altri termini se è frustrante per un praticante rendersi conto di non essere ancora in grado di eseguire un esercizio e di vivere un’esperienza nella prospettiva dell’insegnante, anche l’insegnante deve accettare la frustrazione di avere di fronte persone a cui predicare connessione e sensbilità e sentirsi dire: “Sì, ho capito” e vederle torturare il polso del malaugurato compagno.
Tornare sulla Terra, tornare alla dimensione della pratica quotidiana, significa fare memoria il più possibile del gusto delle esperienze vissute nel seminar. Ed è la parte più impegnativa, perché richiede equilibrio tra progressione curricolare e sviluppo integrale della persona.
Uno sviluppo che è il pilastro della Evolutionary Aikido Community, il gruppo internazionale guidato da Patrick Cassidy e di cui facciamo parte. Un percorso impegnativo ma un volano di miglioramento personale e di possibilità da offrire a tante persone che si affacciano all’Aikido spinte dall’innato desiderio di trovare strumenti di crescita.
Photo Courtesy Silvia Volpato