Chiamata alle armi

In questi tempi di forte tensione, si sente sempre più parlare di chiamata alle armi.

I popoli e le nazioni si scoprono impreparati di fronte a una crisi di proporzioni globali e pensano di poterla risolvere mettendo in campo eserciti e riserve, al limite ricorrendo ad una chiamata collettiva.

La follia della guerra e la sostanziale impotenza di un esercito di fronte alla deterrenza nucleare, dovrebbero convincere anche i falchi più propensi all’opzione militare a sforzi reali per garantire a tutte le parti la cessazione del conflitto e il ripristino di una pace duratura. Questo vale per tutti i conflitti, che sono tanti e sono oscurati da quelli più noti nei media.

Di fronte a questa minaccia, l’essere umano si pone domande e si svela nei suoi meccanismi primari.

Davanti a questi scenari, il praticante di una disciplina marziale può usare quello che è un piacevole passatempo -la pratica- per fare la sua parte. Come?

L’Aikido, in particolare, è un sistema che affonda la sua struttura didattica nello studio approfondito del buki-waza, delle armi. Una pratica carente o priva del contributo del bastone (jo), spada (bokken) e del coltello (tanken) risulta in estrema analisi asimmetrica e impoverita. Certamente utile ma incompleta.

La vulgata del maggiore divulgatore occidentale dell’Aikido, John Stevens, sull’onda new-age e post-sessantottina, ha diffuso il concetto che l’Aikido sia “L’Arte della Pace”. Ed è per certi versi vero ma a condizione di comprenderne alcuni aspetti concreti.

Certo non occorre rivivere le medesime esperienze di Morihei Ueshiba per cogliere in profondità l’essenza dell’Aikido o i suoi valori. Ognuno ha la sua esperienza irripetibile; semmai i valori trasmessi attraverso il linguaggio tecnico rappresentano ciò che noi chiamiamo “tradizione” e che, adattandosi a donne e uomini di luoghi e tempi diversi, li supportano nel definire meglio i tratti della propria individualità.

Occorre però vivere in qualche modo l’esperienza della marzialità. Non della sua caricatura ma della sua essenza. Quell’essenza che si trova nella definitività di un gesto espresso con le armi.

Niente più di un lavoro fatto con le armi amplifica l’errore -o la correttezza- della postura, della linea di attacco, dell’integrazione del movimento nel corpo.

Per quanto sia banale, niente più di un lavoro a coppie con le armi, consente di sviluppare una chiara consapevolezza di chi attacca e di chi riceve e quali componenti di ascolto e di chiarezza devono avere le due polarità del conflitto perché il conflitto possa diventare un’occasione di crescita.

Nell’Aikido, la…chiamata alle armi è un’occasione di chiarezza verso se stessi e verso i propri compagni. Ci si rende conto ad esempio, pur esprimendo i medesimi schemi motori delle tecniche a corpo libero (tai jutsu), che i movimenti spesso divergono. Quindi quella presunta competenza e maestria che spesso si crede di avere, è espressa in modo non raccordato, non fluido, a compartimenti stagni.

In fondo, se non si sta attenti, si ricostruisce sul tatami, il mondo in cui viviamo. Un mondo fatto di competenze espresse a verticalità che non si parlano. Un mondo che ha dimenticato di mettere l’uomo al centro e con esso l’umanesimo che ha fatto grande il Rinascimento, formando persone competenti nella trasversalità del sapere e nell’espressione del bello.

In piccolo, se non si fa costantemente attenzione, il tatami restituisce ciò che nel grande è la perversione che sta trascinando il mondo nel baratro dell’ennesima guerra. E’ quello che prima definivamo come caricatura della marzialità. Una caricatura grottesca, fatta di tante piccole tessere. La tessera del tradizionalista del “si è sempre fatto così”, chiusa alla comprensione di ciò che accade al di fuori della torre d’avorio. Quella sempre rivoluzionaria e agitata, che non si ferma mai a comprendere il lascito del passato. La sfaccettatura tutta testosterone e cerebrale, fatta di lunghi elenchi di tecniche usate per prevalere e basta. Quella che in nome dell’inclusione di fatto non capita né agita, non si ingaggia mai.

La chiamata alle armi, per un marzialista, è studio del proprio limite, nel cercare la stretta via di mezzo. E’ l’umile accettazione del processo di perfezionamento. Il dialogo costante con se stessi, col compagno, col gruppo, con l’insegnante.

E’ la ricerca ed il perfezionamento della chiarezza.
Una chiarezza che manca al mondo in cui viviamo. Nella narrazione dei fatti e nell’accettazione delle reciproche responsabilità e interdipendenze.

Costruirsi come donne e uomini capaci di chiarezza perché capaci di ascolto, è il contributo che una disciplina marziale come l’Aikido, può dare alla società.

E scusate se è poco, di questi tempi.

Disclaimer: Foto di Krys Amon su Unsplash

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