Quante volte si prendono delle decisioni “in coscienza” e quante volte l’incoscienza è la cifra dell’agire?
Le neuroscienze attribuiscono al nostro cervello la capacità di sviluppare consapevolezza di sé, la consapevolezza dell’ambiente in cui ci troviamo e la capacità riflessiva, cioè l’abilità di osservare e riferire i propri stati mentali.
In questa prospettiva, l’esperienza soggettiva di tali capacità compone ciò che -per ora- viene scientificamente definito come coscienza.
Sempre con la lente delle neuroscienze, si possono quindi identificare tre principali stati di coscienza. La vigilanza (fondamentalmente corrispondente dallo stato di veglia); la consapevolezza (la capacità di produrre contenuti coscienti, elaborati nella corteccia cerebrale); infine l’alterazione (dal sonno ai sogni, allo svenimento e anestesia fino agli stati dissociativi).
La disciplina marziale offre al praticante un laboratorio in cui le tecniche sono gli strumenti iniziali per sviluppare la consapevolezza di sé nell’ambiente. Effettivamente, un principiante che va a far sbattere il proprio compagno di pratica contro una parete o che si dà una bastonata da solo sulla testa, sviluppa nel tempo una capacità riflessiva per prendere meglio le misure negli allenamenti successivi.
Uno degli aspetti sottostanti e trasversali non solo a tutte le discipline marziali ma a tutte le attività sportive tradizionali è, fondamentalmente, la naturalezza e la rilassatezza del gesto.
In attività come l’Aikido è frequente imbattersi in adulti (in realtà, purtroppo, sempre più frequentemente anche in giovani) che utilizzano il corpo in modo molto disfunzionale. E’ solo questione di rigidità, età e stati fisici non ottimali?
Guardiamo all’essere umano in due sue modalità espressive: il bambino e il motociclista disarcionato.
Il bambino piccolo, quando capitombola a terra o quando deve raccogliere un oggetto, ha un movimento di recupero della postura immediato, integrato e naturale. Un adulto che deve raccogliere una penna da per terra farà, nella maggiorparte dei casi, un piegamento rigido sui suoi appoggi. Con sommo piacere delle sue articolazioni e delle lombari.
Il motociclista che in pista viene disarcionato viene sopraffatto dalla velocità dell’evento e -spesso- cade in uno stato di svenimento o di forte shock. Si vede, in quei terribili frangenti, che il corpo si muove nello spazio e negli impatti in modo totalmente naturale. L’enorme energia -grazie a linee di fuga ampie e protezioni- viene così dissipata quasi sempre senza conseguenze fatali.
In entrambi i casi siamo di fronte a uno stato di coscienza destrutturato. Il bambino la struttura non ce l’ha ancora. L’adulto, sotto stress, ne ha troppa ed è come se non ce l’avesse.
La pratica dell’Aikido si propone fondamentalmente di condurre una persona nel cammino della riappropriazione delle facoltà coscienziali.
Lo fa con esercizi molto umili in cui, iterazione dopo iterazione, ci si specchia in compagni di pratica diversi facendo esperienza del limite, delle rigidità, dei blocchi. Di quei buchi neri in cui le nostre energie sono buttate e disperse.
Riequilibrando la risposta attiva del sistema fisico, si va a ripristinare di conseguenza una maggior naturalezza del gesto e quindi di ciò che, in coscienza, lo anima.
Per questo la pratica non può prescindere dalla ripetizione tecnica, perché noi siamo ciò che facciamo ripetutamente. E’ importante che, però, questo processo avvenga secondo un’attenta guida di un insegnante capace di indirizzare il processo di miglioramento.
Infatti, una ripetizione sostanzialmente sbagliata sotto il profilo tecnico e motorio, non può condurre ad una maggiore consapevolezza ma al suo contrario.
Lo stesso avviene quando questo processo, anche se geometricamente perfetto, viene svolto senza che si apra ad una più ampia percezione di sé e delle cose. In altri termini, una disciplina insegnata esclusivamente a livello fisico forma degli ottimi robot, che poi al limite vanno a chiedere a ChatGPT perché, pur essendo undicesimi dan hanno relazioni interpersonali che fanno schifo e non dormono bene la notte.
Inserire in modo oculato qualche asperità nella pratica per evidenziare blocchi motori ed esecuzioni non lineari e farlo senza finalità svalutative, rende la pratica molto più umana e diventa un elemento essenziale per attivare un processo di reale miglioramento, nell’accettazione del limite.
Ed è uno dei più potenti antidoti per porre un argine all’incoscienza di cui condiamo le nostre giornate.
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