Hitohira Saito e la pratica che incarna la spiritualità

Lo scorso 14 gennaio, con la cerimonia del Kagami Biraki, si è celebrata l’apertura dell’anno di pratica nei dojo in giro per il mondo.

In Giappone, all’Honbu Dojo, nipote e pronipote di Morihei Ueshiba hanno svolto la loro commemorazione offrendo una dimostrazione (enbukai).

Lo stesso ha fatto Hitohira Saito, figlio di Morihiro, successore di Morihei Ueshiba al dojo di Iwama, custode del locale Aiki Jinja e l’allievo che visse con più tempo col fondatore dell’Aikido.

Il discorso tenuto da Hitohira Saito è disponibile a questo link. Pur col limite del nostro Giapponese, alcuni passaggi meritano qualche riflessione.

Nella commemorazione è stato dato ampio spazio al ricordo di Alessandro Tittarelli Shihan, morto nel 2018 e al legame di amicizia che univa i due. Colpisce sempre, in una cerimonia dall’altra parte del mondo, sentire parlare -e in termini lusinghieri- dell’Aikido italiano.

Hitohira Saito ha ricordato che col 2024 si festeggeranno i primi vent’anni dell’ associazione da lui fondata per continuare la linea didattica sviluppata a Iwama, l’Iwama Shin Shin Aiki Shurenkai, di cui Alessandro Tittarelli era il referente italiano.

Non stupisce che gran parte del discorso sia ruotata intorno ai luoghi comuni che definiscono frettolosamente il dualismo Honbu Dojo – Iwama.

Hitohira Saito lo riassume molto bene: a Tokyo c’è un “nagare no keiko“. A Iwama un “kihon no keiko“. Un allenamento molto concentrato sul movimento fluido da un lato e uno dedito all’attenzione che nasce dalla statica dall’altro.

A Tokyo lo studio delle armi non è così approfondito come a Iwama e così, in Europa e nel mondo, come qualcuno mostra nella sua pratica un programma di aikiken e aikijo, allora viene etichettato come appartenente all’ “Iwama style“…

Se fosse finito così, questo discorso sarebbe stato né più né meno la riproposizione di quello che i praticanti di Aikido di tutto il mondo ripetono -più o meno a ragione, più o meno come pappagalli, più o meno per pregiudizio– da quando entrano nello spogliatoio a quando si siedono di fronte ad una birra dopo l’allenamento.

Invece.

Invece Hitohira Saito non solo esprime chiaramente il proprio disappunto sul fatto che definire da un lato l’Iwama style e dall’altro il Tokyo style dà l’idea che esistano due cose diverse, non unificate dall’Aikido. Questo, ricorda Saito, non era certamente nella prospettiva del kaiso, del fondatore.

Soprattutto fa un interessantissimo parallelismo tra Aikido e Shodo. Esattamente come nell’Aikido, nello Shodo, ricorda Saito, esiste il kihon, lo studio di base. Poi, mano a mano si evolve.

E poi dice:

精神性が入る書になっていくわけですね. Seishin-sei ga hairu sho ni natte iku wakedesu ne.

A un certo punto [il modo di scrivere] incarna la spiritualità“. Boom!

Noi non abbiamo avuto la fortuna di poter praticare con Morihiro Saito. Chi lo ha conosciuto da vicino ci ha rimandato sempre la sua cura didattica nel trasmettere nel modo più fedele ciò che aveva visto fare dal fondatore. Ci ha parlato di un uomo che aveva certamente una sua dimensione spirituale e religiosa ma che queste non emergessero in alcun modo nella pratica. Del resto lui aveva il compito di tramandare ciò che aveva visto, non ciò che aveva percepito.

Del resto, chi è transitato sui tatami popolati da gruppi dediti all’Iwama Ryu può raccontare di aver vissuto tante esperienze, molte delle quali arricchenti sotto più profili. Però crediamo di non dire un’eresia se affermiamo che la pratica dell’Iwama Ryu non sia quel luogo in cui riverbera una qualche “incarnazione di spiritualità”.

Il discorso di Hitohira Saito apre invece una prospettiva quantomeno inedita rispetto ai luoghi comuni.

Ovviamente, dalla sua prospettiva, Hitohira Saito non può che sottolineare l’importanza del sistema didattico nato a Iwama, la sua completezza e soprattutto, come ha fatto nel discorso, l’importanza del kihon.

Ma se cogliamo la sua similitudine con lo Shodo in una nuova prospettiva e la colleghiamo con la sottolineatura della stonatura di vedere “stili” diversi, allora questo discorso ha un profumo inedito.

Non più realtà separate ma livelli di espressione diversa, che tendono al culmine della pratica intesa come quel momento in cui “ci metto il cuore“. In cui incarno in ciò che faccio l’essenza della spiritualità di cui sono portatore.

Nella scorsa estate abbiamo toccato con mano, anche nella stessa Iwama, la differenza tra queste due realtà. Numericamente e dal punto di vista organizzativo, l’Aikikai sovrasta totalmente il lascito tecnico di Morihiro Saito.

E tutto ciò avviene in Giappone, dove, come avevamo potuto constatare, la traccia dell’Aikido a livello culturale e sociale è minima, evanescente.

Un Giappone che è ancora molto legato al concetto di continuare le tradizioni di famiglia. Contro tutte le evidenze, a volte. A ben pensarci, l’ostinazione non è una caratteristica soltanto giapponese.

Però, chissà. Chissà che riportare la pratica di una disciplina al livello che le compete e cioè del cuore, non possa sanare col tempo una ferita che non fa il bene di nessuno e che veramente poco ha a che fare con qualsiasi traduzione possiamo dare al termine aiki.

   Send article as PDF   

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.