Allenare un gruppo di adolescenti è un privilegio: stare con i giovani ti fa rimanere giovane. Almeno “dentro”, perché “fuori”, il corpo fa un po’ più fatica ad adattarsi ai loro ritmi.
La scorsa settimana abbiamo chiesto loro di esprimersi rispetto al concetto di libertà. Che cosa è la libertà? Che cosa non è?
I ragazzi riflettono sempre l’ambiente e la società in cui vivono. Le risposte hanno tardato ad arrivare. Non si è granché abituati -ed evidentemente non si educa abbastanza- a formulare risposte personali di fronte a concetti che sono sulla bocca di tutti.
Con un po’ di fatica -e con molta facilitazione- sono arrivate risposte decisamente ovvie. La libertà è stata definita come “poter fare ciò che si vuole”. “Fare qualcosa senza invadere la sfera altrui”. “Non avere regole”.
Così gli abbiamo chiesto di lavorare in coppia, attaccando come volevano e rispondendo come volevano. Il risultato, piuttosto scontato, è stato che alcuni hanno iniziato ad attaccare secondo gli schemi conosciuti e a rispondere applicando esclusivamente le tecniche note. Peraltro con una veemenza tale che il povero uke veniva regolarmente schiantato a terra.
Altri, invece, hanno riproposto una versione in salsa marziale delle belle statuine del presepe. Fermi, imbalsamati.
Non è che con gli adulti le cose siano poi così diverse. Di’ ad un adulto di potersi esprimere “liberamente” in un jiyu waza, in un randori e immancabilmente, all’aumentare della pressione, si rifugerà nella ripetizione ossessivo-compulsiva di quelle tecniche-rifugio in cui si sentirà a proprio agio. A discapito dei malcapitati.
O peggio, di’ ad un adulto di dare una rappresentazione del “suo” Aikido e molto spesso andrà in onda una recita, più o meno ben preparata, di un kata. La tomba della libertà espressiva.
E’ sempre affascinante vedere la reazione di un principiante di fronte a una presa solida. Il suo polso o il suo avambraccio sono bloccati nella morsa di una presa e, come per effetto di un sortilegio, si paralizza il resto del corpo. Che pure è svincolato.
Un praticante un po’ più esperto prova lo stesso imbarazzo, di solito, quando cambia gruppo e stile.
Generalmente, quando si fa fare esperienza della libertà, della possibilità di un corpo di muoversi intorno a un punto vincolato, si assiste a una reazione di meraviglia. Ma si assiste anche all’inevitabile piccola crisi interiore, su cui spesso si gioca il permanere di una persona in un corso di Aikido.
Perché tutti, giovani e meno giovani, sono intelligenti a sufficienza per fare in autonomia un ragionamento deduttivo. E cioè di capire che se basta una presa a un polso per paralizzarci, forse anche al di fuori della sala tatami non siamo così liberi come crediamo.
Un po’ perché non siamo capaci di dare alla libertà una definizione costruttiva e plausibile.
Un po’ perché non abbiamo gli strumenti per coltivare questa definizione e applicarla.
Nella sua piccola parte, una disciplina come l’Aikido mostra bene, a chi è interessato, la nostra attitudine rispetto alla libertà.
Arriva un attacco e spesso anziché andare negli spazi vuoti, il nostro corpo va nell’unico luogo del mondo in cui non dovrebbe essere: dove l’attacco c’è.
Abbiamo, per natura, il terrore del vuoto e della solitudine. Siamo esseri gregari, prima ancora che sociali. Per questo, arriva una mano, un pugno, un fendente portato con una spada di legno…E la prima cosa che facciamo è andare verso quella mano, quel pugno, quella spada.
Che sono la periferia di un centro con cui dover fare i conti. Non è la mano, il pugno o la spada il problema. Il problema è il centro che la muove.
Definire la libertà serve per poterne fare esperienze e buon uso.
L’Aikido, come altre discipline, permette di fare una buona opera di ecologia del conflitto. Fornisce solide basi per comprenderlo, per capirne le regole grammaticali e poter orientare così una scelta.
Scelta: la definizione che i nostri ragazzi hanno dato alla libertà, alla fine dell’allenamento.
Buon 25 aprile!
Andrea e Sara
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