Aikido ad efficientamento energetico

L’efficientamento energetico è senza dubbio uno dei mantra di questi ultimi anni. Un tema reso ancora più attuale dalla congiuntura internazionale che stiamo vivendo.

Per ragioni economiche, finanziarie ed ambientali, si cerca di ridurre il consumo e di non sprecare energia. Quanto ci si riesca, è sotto gli occhi di tutti.

Quasi quindici anni fa, quando Alexa e l’assistente di Google non esistevano i dispositivi di domotica intelligente erano agli albori, un’azienda di energia ci aveva coinvolto in un progetto dalla finalità semplice e apparentemente banale per la realizzazione di un dispositivo.

Un dispositivo, collegato alla rete domestica, che misurava i consumi in tempo reale, restituendo consapevolezza all’intestatario della bolletta.

Adesso questi congegni sono abbastanza diffusi e servono per complesse operazioni automatiche di calibrazione dei consumi. Ma all’epoca era sufficiente far vedere all’utente quanta potenza usasse per far abbassare i consumi in media del 18%.

Chiunque pratichi sport con continuità ha l’esigenza di dosare la propria energia, calibrando di conseguenza l’uso della potenza.

A maggior ragione, chi pratica Aikido pretende di camminare in una disciplina che fin dal suo nome porta la responsabilità di conoscere, curare, sviluppare e usare il “ki”. Che grossolanamente si può tradurre con “energia”.

Un buon percorso di allenamento inizia appunto da qui: dalla consapevolezza relativa a quanta energia consumiamo, come la disperdiamo. Dedicarvisi con un po’ di costanza svela a ciascuno dei modi per ridurre il dispendio non consapevole di energia.

Concentrandosi “soltanto” sulla dimensione biomeccanica della pratica, si notano molti modi di disperdere forza ed energia: da un circuito di riscaldamento male impostato a errori di postura; da contrazioni muscolari superflue alla gestione superficiale della respirazione, passando per defaticamento e stretching mal fatto e cattive abitudini alimentari…

Se dal piano fisico ci spostassimo verso altre prospettive saremmo stupiti nel vedere quanti buchi abbia il nostro serbatoio di energie.

Paure, insicurezze, desideri di rivalsa, tempo investito più per mostrare di aver ragione che per capire dove sia la verità: sono comportamenti all’ordine del giorno, per tutti.

Come lo sono l’attaccamento ad un ruolo spesso autoattribuito o quantomeno percepito, che trasforma la costanza in una disciplina in routine, abitudine senza una finalità e rischia di scivolare nella più buia e sterile delle gabbie.

Siamo fenomenali nel trovare modi fantasiosi e davvero creativi per disperdere quanto abbiamo.

Per contro, il web e l’editoria specializzata sono pieni di scritti e riflessioni su “NOME_ARTE_MARZIALE ed energia”.

Allo stesso modo capita più spesso di quanto si creda di imbattersi in questo o quell’istruttore o allievo esperto che afferma non solo di aver “incontrato” ma addirittura di aver “imparato a gestire” il ki. Spesso condito da un’aura simil-guru.

Buon per loro. Se ci si fermasse a considerare come usano il corpo, come si relazionano col prossimo, a partire dal tatami, e come e cosa scrivono, dai social network ad altre pubblicazioni, si potrebbe avere qualche dubbio sul fatto che sia molto facile cambiare nome all’ “ego”, ribattezzandolo in “ki”. Entrando, di nuovo, in una spirale che alla fine acceca senza dare luce.

Che dire quindi?
La disciplina marziale è una pratica psicodinamica: se anche ci si limitasse a praticarla fisicamente in modo accurato, inevitabilmente porterebbe a toccare dimensioni non soltanto fisiche.

Per incontrare le dimensioni non fisiche, si passa inevitabilmente dalla corporeità e dalla costanza della relazione tra persone, portando lentamente a svelare ciò che accomuna pur nelle diversità; ciò che dà dignità a tutti a prescindere dal livello, censo o vissuto. Ciò che, in definitiva, vale la pena di essere coltivato e non disperso.

Questo “qualcosa” brilla certamente anche in un’umile tecnica, per quanto raffinata ed ha una natura talmente sottile e potente che saremmo da compatire se pretendessimo di confinarla nel recinto di una pratica marziale, pretendendo di possedere qualcosa che si avvicina a noi per dono e non per forza.

Disclaimer Foto di Mamun Srizon da Unsplash 

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