Tre modi per allenare la libertà

Almeno a parole, tutti desiderano la libertà. Chiunque vuole esprimere le sue scelte senza costrizioni e determinare così la propria vita.

Questi ultimi anni, con la pandemia prima e con la guerra che si riaffaccia nell’Europa continentale, hanno riproposto anche nel mondo occidentale la fragilità della libertà, insieme alla sua importanza.

Una condizione purtroppo presente da sempre nella Storia e che risveglia dal torpore le persone solo quando le tocca da vicino.

Che cosa ha da offrire una disciplina marziale, come per esempio l’Aikido, alle donne e agli uomini in cerca di affermare la propria libertà?

Abbiamo pensato a tre elementi, tre pilastri su cui poter basare un allenamento consapevole della libertà. Vediamoli.

1 – Il Dojo come distacco

Siamo troppo abituati al paradigma pago-esigo-pretendo. Da quando apriamo gli occhi a quando li chiudiamo, la gran parte delle nostre occupazioni è incasellata in un ordine gerarchico, spesso dettato dall’utilità e dal ritorno economico che ha. Soprattutto agli inizi, è difficile concepire l’allenamento diversamente dal pagare un biglietto per usufruire di uno spettacolo. O versare una quota per entrare a fare fitness in una palestra (e provare a cuccare). O pagare la prestazione di un professionista.

Talvolta -e non solo nei confronti di un principiante- è complesso comunicare con un rispettoso contagocce l’importanza della costanza. Perché, in un modo o nell’altro, cambiarsi di vestito, entrare in un luogo con regole diverse da quelle del resto della giornata, potersi dedicare alla comprensione degli esercizi, alzando la concentrazione e riducendo il brusio mentale, tutto questo permette al nostro corpo e anche alla nostra mente di distaccarsi dalle routine.

2 – La nuova routine come catalizzatore del cambiamento

Il che è apparentemente un controsenso. L’allenamento formale, quel kata geiko che prevede esclusivamente una ripetizione incrementale di forme è un ottimo catalizzatore del cambiamento. A tre condizioni. La prima è che la spiegazione della forma sia chiara, nelle sue geometrie e nelle sue finalità. Il famoso modo di dire “ripetere per mille volte zero, restituisce zero” significa proprio questo. La seconda è che chi pratica deve avere la pazienza di poter fare quel percorso che lo renda consapevole che qualcosa sta effettivamente cambiando. Questo richiede tempo e una certa capacità di autovalutazione che si sviluppa solo rimanendo dentro il percorso.

La terza condizione è…Saper uscire dalla routine. Le cosiddette scuole tradizionali si sono sempre distinte per avere una didattica precisa, ripetibile, sempre uguale a se stessa. Questo è un valore. Tuttavia, lentamente diventa per molti l’implicita convinzione che non ci sia più nulla di nuovo né di meglio, né di sperimentabile. Ed è qui che l’allenamento formale fa danni, perché non va a modificare nulla nella persona. Non c’è nulla di nuovo e tutto alla fine alimenta l’attenzione al passato e la ciclicità di quanto siamo già.

Se la mente, molto spesso, si rifugia nel passato per avere le sue sicurezze; se il cambiamento personale spesso non accade a causa della paura di affrontare una nuova prospettiva o più semplicemente una versione diversa di noi…Che beneficio possiamo trarre dal solo allenamento formale? Chiamiamo alla fine libertà un bunker di cemento armato che, keiko dopo keiko, consolida la tecnica e con essa fa morire la libertà di scelta.

3 – Scegliere di andare oltre il “no mente”

A molti, tutto sommato, non piace sapere che il motore della nostra mente è sempre attivo. Discipline come l’Aikido, con molto rispetto, sbattono in faccia a un principiante come a un esperto che pratichi nuove forme, che nella vita di tutti i giorni puoi essere una persona con un cervello finissimo ma, richiesto di coordinare lo spostamento del braccio destro col piede sinistro, ti scopri goffo, incapace. Non libero.

Questi molti, spesso, sono attratti dall’evocazione di un metodo -in questo caso le Arti Marziali- che consenta di arrivare ad uno stato di “no mente“, 無心, mushin. I film sui samurai e in generale sugli eroi senza macchia che con qualche tecnica ben assestata fanno trionfare la giustizia, hanno buttato benzina nel fuoco della nostra immaginazione.

Il mushin contiene una grande verità: per essere capace di rispondere agli stimoli in un modo funzionale, il corpo necessita una mente placata, capace di essere lì quando serve (残 心, zanshin).

Tuttavia scegliere richiede la libertà e la libertà è frutto sì di una mente presente e calma ma anche e soprattutto di una mente che sa che cosa vuole ottenere.

Se torniamo all’allenamento formale, possiamo vedere che un principiante, molto spesso, si blocca “perché non sa che cosa fare”. Anche se lo ha visto e anche se gli è stato spiegato a lungo. Una mente che sappia condurre tutto il mondo fisico ed interiore di una persona dall’inizio alla fine di un’azione, è una mente che sta facendo esercizio di scelta, e quindi di libertà.

Infatti, in situazioni di allenamento meno rigide dal punto di vista formale e più vicine ad una condizione di combattimento “reale”, la mente sgombra e attenta sta all’ascolto di quanto avviene e in modo spontaneo arrivano le risposte. In un combattimento, premeditare una risposta rende lenti e quindi perdenti. Ma anche non sapere che cosa succede una frazione di secondo dopo che prendiamo l’attaccante per esempio sulla sua spalla, è pericoloso. Di nuovo: stare nel passato, nel cercare nell’elenco di tecniche la risposta “corretta” è controproducente. E stare nel futuro non significa sapere che cosa succede se applico uno squilibrio a una persona.

Concludendo

Poche esperienze come l’Aikido permettono ad una persona di di rivoluzionare abitudini fisiche e schemi comportamentali. Saper mettersi all’ascolto di come funzioniamo, di come le nostre emozioni e i nostri pensieri reagiscono alle situazioni è l’obiettivo più alto dell’allenamento. Ed è lì che si può iniziare davvero il cambiamento.

Un cambiamento che ci insegna, per esempio, che i nostri progressi sono molto spesso sabotati dai nostri pensieri negativi: su di noi, sulle nostre presunte incapacità, sulle aspettative sugli altri, sui rapporti che viviamo fuori e dentro il Dojo.

Ed è qui che si fa esperienza di cosa sia libertà, iniziando a comprenderne il senso. Abituati, fin troppo, a concepire la libertà come quel contesto in cui crediamo di poter fare ciò che vogliamo, finiamo di fatto in nuove routine, che seguono lo schema precedente che ci accompagnava prima di…fare ciò che volevamo.

Una risposta fisica funzionale ad assorbire una tecnica magari non servirà mai a niente se non a non farsi far male dai nostri compagni di pratica. Però ci educherà all’uso della libertà là dove può essere espressa e nelle condizioni in cui effettivamente siamo e non dove vorremmo essere. Questo è il valore infinito della forma. Scegliere di perdere l’equilibrio e cadere. Scegliere di mantenere il contatto con chi ci attacca. Scegliere di mantenere la geometria della relazione tra i centri.

E, per l’ovvia ragione per la quale un cambiamento di abitudini fisiche si riflette anche nelle abitudini mentali, il nostro pensiero sarà sempre più capace. Capace di scegliere, capace di distinguere che cosa serve e che cosa no, capace di dire al corpo e alla persona che lo abita di cambiare.

I pensieri diventeranno via via più “positivi”, in grado cioè di dirigere attivamente le nostre scelte e, attraverso esse, di scoprire gli spazi in cui esiste la nostra libertà.

Disclaimer: Foto di Jimmy Chan da Pexels

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