Smettere di giocare per divertirsi davvero: l’Aikido oltre le convenzioni

Giocare e divertirsi sono due pilastri dell’esperienza comune a tutti. A quasi sessant’anni dalla pubblicazione di “A che gioco giochiamo?“, riteniamo importante tornare a soffermarci sulle affinità tra la pratica dell’Aikido e l’analisi transazionale.

Le teorie originate da Eric Berne si concentrano sulle interazioni sociali -le transazioni, appunto. In particolare, il libro citato descrive diverse classificazioni delle modalità di relazione: le procedure, i rituali, i passatempi e, per finire, i giochi.

Le interazioni sociali sono analizzate in continuo confronto con gli stati dell’io, ovvero le componenti che la nostra storia personale e l’ambiente in cui viviamo, coesistono contemporaneamente in noi: una dimensione genitoriale, una adulta e una bambina.

Imparare ad eseguire correttamente un programma tecnico è, ad esempio, una procedura. Nella prospettiva di Berne, la procedura è efficiente se, a prescindere dalle eventuali lacune dell’individuo, questo fa il miglior uso delle informazioni che riceve. La procedura diviene efficace sulla base dei risultati che produce.

Il mondo in cui viviamo è malato di efficienza e il mondo delle Arti Marziali è allucinato dall’efficacia. Le riflessioni di Berne potrebbero servire per riportare la riflessione su binari più funzionali alla pratica.

C’è una dimensione soggettiva, quella dell’efficienza, in cui la persona può arrivare grazie alla pratica ad un suo massimo relativo. Può ad esempio diventare una copia da manuale dell’esecuzione tecnica (efficienza) senza però cogliere nulla di quella trasformazione a livello personale e sociale che vivere una disciplina richiede (efficacia). Su questa dicotomia attecchiscono molti fraintendimenti, in un verso e nell’altro. Da un lato i duri e puri per i quali “non siamo mica filosofi” e dall’altro gli esperti di filosofia che non sanno niente di tecnica. Anziché chiedersi se l’Aikido sia efficace per la strada sarebbe quindi opportuno bilanciare questi due estremi con una pratica rettamente intesa.

Una serie stereotipata di procedure efficienti crea la tradizione -nel linguaggio di Berne: il rituale. Sicché occorre comprendere il valore -e insieme il limite- della tradizione. Forme culturali di un mondo distante nel tempo e nelle abitudini come quelle della società giapponese che ha cristallizzato il Budo praticato oggi dalle nostre parti, ubbidivano a criteri estremamente logici al tempo in cui sono state codificate. Fino a che punto e perché ha senso, oggi, vestirsi secondo quelle usanze e comportarsi secondo quell’etichetta?

E’ evidente che seguire determinati rituali può dare soddisfazioni che la semplice e spontanea interazione sociale tra le stesse persone talvolta non produce. E’ il caso della persona che nella società ha ruoli subalterni ma in un Dojo ha una qualche responsabilità. E’ nel Dojo che il rituale genera per questa persona una serie di riconoscimenti e di interazioni sociali che costituiscono vere e proprie “carezze” al suo io interiore.

In un ambiente di pratica -così come in qualsiasi ambiente umano- l’intervallo di tempo condiviso con altre persone può quindi essere riempito da quello che Berne definisce passatempo. Nei passatempi, ognuno ricopre un determinato ruolo, più o meno consapevolmente e generano quei processi di selezione tali per cui nascono le amicizie e le simpatie -e anche i loro opposti.

Di conseguenza, attraverso la condivisione della tecnica (procedura) nella cornice di una tradizione marziale (rituale), il tempo del keiko è il perimetro in cui un gruppo interagisce per un tempo limitato e trova dinamicamente i suoi equilibri. In questa dinamica risiedono per esempio tutti le interazioni sociali in cui tipicamente a una persona è riconosciuta autorevolezza e a un’altra no, a prescindere da ruolo e grado. Ogni gruppo vive questa esperienza e ne conosce le varie sfaccettature.

Infine, per Berne, in un mondo in cui un rapporto di intimità reale tra persone è sempre più complesso e negato, l’umanità tende a relazionarsi secondo schemi preordinati di interazioni non disinteressate, definiti giochi.

Sono giochi quelli in cui ogni partecipante all’interazione riveste un ruolo -potremmo definirla anche come maschera sociale– e dove, dal punto di vista psicologico, è previsto un pagamento, una posta in palio.

La caratteristica del gioco, per Berne, è che non ha vincitori. Piuttosto, alla fine del gioco, perdono tutti.

Ad esempio, un certo delirio di onnipotenza che serpeggia tra istruttori e senpai è ben descritto da Berne quando parla del gioco chiamato “sto solo cercando di aiutarti”, in cui sotto l’apparenza di una sincera disposizione alla guida da un lato e, dall’altro, di una malleabile fiducia a farsi allenare, si nascondono i ruoli di vittima e salvatore, che richiedono di essere nutriti continuando a “giocare”.

Come tutte le discipline psicodinamiche, anche l’Aikido può aiutare chiunque a smettere di giocare.

A riconoscere cioè che, seppure molto spesso -ma non sempre- inconsapevolmente, quello che va in scena sul palcoscenico della nostra vita non è altro che una stratificazione di maschere messe lì per nutrire quelle parti di noi che non amano venire alla luce.

Ed è abbastanza naturale che la parte più autentica di noi, non riconoscendosi in fondo con le maschere con cui viene presentata in pubblico, sia attratta da discipline come l’Aikido. In altre parole, chiunque salga sul tatami, in fondo, è attratto dal suo potenziale riequilibrante e disvelante.

Allora diventa possibile un percorso a ritroso: uno o più giochi ci stufano a tal punto che accettiamo il passatempo del keiko perché attraverso qualcosa di estremamente ritualizzato noi apprendiamo procedure sempre più complesse che in fondo ci restituiscano la capacità di tornare a quel livello di intimità con noi stessi e gli altri che la parte più pura di noi continua a cercare.

La fame di carezze che Berne descrive è ciò che una disciplina può contribuire a saziare.

Si può quindi cambiare rotta alla propria sola monotonia, quindi, letteralmente, ci si può davvero “divertire”?
Sì, se si vuole progressivamente smettere di giocare giochi stantii, partecipare a passatempi triti e ritriti degni delle più ammuffite bocciofile (con tutto il rispetto delle bocciofile), perpetrare rituali non compresi o non più applicabili, solo perché ci fanno sentire al riparo delle nostre responsabilità e continuare meccanicamente a ripetere le stesse procedure senza mai interiorizzarle.

Allora può nascere un divertimento allo stato puro.

Disclaimer: foto di Tima Mirosnichenko da Pexels

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