Quasi duemila anni fa, Catullo scriveva questi versi che avrebbero attraversato i secoli:
Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior.
(Odio e amo. Forse ti chiedi perché lo faccia. Non lo so, ma sento che è così e mi sento in croce).
Catullo non poteva certo immaginare che le sue parole avrebbero attraversato i secoli, fino a giungere a noi. Pur dotato di talento e immaginazione, non avrebbe mai pensato di finire… in bocca ad un praticante di Aikido per definire l’essenza della pratica.
In questo periodo stiamo raccogliendo piccole testimonianze di diversi nostri allievi del gruppo adulti. Piccole clip che servono a rendere l’Aikido più comunicabile, più comprensibile al pubblico. Un’iniziativa, nata all’interno dell’Evolutionary Aikido Community che ha l’innegabile effetto collaterale – positivo – di conoscere i nostri compagni sotto una prospettiva in più.
Uno di questi ha definito l’Aikido, la pratica, con due termini: Amore e Odio.
Amore perché praticare è bello, permette di imparare, crescere, conoscere, entrare in relazione con tante dimensioni che prima semplicemente non erano prese in considerazione.
Odio perché la pratica attiva un processo che obbliga a entrare in contatto con le proprie e altrui zone d’ombra.
È utile pensare alla pratica attraverso la categoria dell’amore, perché ci aiuta ad entrare meglio in rapporto con la dualità di cui è intrisa la nostra esistenza, Aikido compreso, e con le stagioni della pratica.
C’è una stagione iniziale, una sorta di infanzia. Dove è tutto nuovo e, pur essendo tutto faticoso e nebuloso, l’entusiasmo prevale. Il bambino sente l’amore della mamma e restituisce istintivamente sorrisoni e carezze. Del resto non conosce altro (di solito).
C’è un’adolescenza, a volte molto prolungata. La stagione delle amicizie, dei “cuori di panna” e delle “magliette fine”. Di amori giurati come eterni che svaniscono nell’arco di una vacanza estiva.
È una fase di sperimentazione, di attrazione tra poli opposti, di emozioni disordinate che richiedono griglie di interpretazione.
È il momento dell’amore e dell’odio (e infatti Catullo ha sempre fatto furore tra gli adolescenti).
Ci sono allenamenti in cui va tutto liscio, capisci tutto, ti sembra di toccare il cielo con un dito.
Altre volte vorresti svitare la testa ai tuoi compagni di pratica.
A volte conti le ore che ti separano dall’allenamento.
Attraversi periodi in cui ti sembra che il tuo insegnante non ti capisca. O non ti dia ciò di cui hai bisogno.
C’è una maturità, in cui si fa esperienza di un “noi”, dove la dualità di due “io” converge in una progettualità comune.
Una dualità che si specchia dinamicamente in continuazione, senza rinunciare a identificarsi nelle proprie differenze.
Quando questo accade, quando subentra un meccanismo che in psicologia viene definito “fusione”, spesso iniziano i problemi, perché alla distanza il progetto rappresenta più uno dei due e l’altro, immancabilmente, si sente mancare l’ossigeno e la coppia torna indietro alla fase adolescenziale.
La pratica matura riesce a trovare un obiettivo di crescita a prescindere dalle varie polarità.
Proprio perché vede e accetta i limiti (propri, dei compagni, degli insegnanti), trova lo spazio per andare verso uno sviluppo. Un senso della pratica.
È il momento in cui i perché si mettono a nudo.
Ogni motivazione per cui valga la pena salire sul tatami è vagliata al fuoco della realtà e del senso.
E quando i perché non sono stati gradualmente scoperti, investigati e consolidati durante l’infanzia e l’adolescenza; durante il “fidanzamento” con l’Aikido, portano inevitabilmente a crisi.
C’è infine, nella parabola dell’amore, la fertilità e il lento distacco.
Un amore che sa integrare le polarità è fecondo, generativo.
Diventa capace di prendersi cura non solo di sé ma anche di altri, che nascono – fisicamente o meno – dalle relazioni che l’amore sa generare.
Un praticante che non sappia attrarre e aver cura non solo dei propri compagni ma di altre persone al di fuori dell’ambiente di pratica, deve a un certo punto farsi delle domande.
Un praticante esperto che non mette mai il naso al di fuori del piccolo, grande recinto del suo giro, deve, a un certo punto, farsi delle domande.
Un insegnante che accentri e tenga per sé tutto e che non avvii i suoi studenti sulla strada dell’insegnamento…
Che insegnante è?
E, come accade nelle storie di amore più solide e durature, a un certo punto il tempo porta con sé la caduta delle foglie.
Una si stacca sempre per prima e l’altra rimane, in attesa di seguirla.
La pratica a cui siamo abituati non può avere la medesima forma per sempre.
Arriva il momento, se non di terminarla, di modificarla.
Per limiti fisici, di disponibilità, di senso. E a volte per la necessità di lasciare spazio ad altri.
Sappiamo, sapremo farlo in modo costruttivo?
O finiremo i nostri giorni di pratica, col senso di amore e odio?
Come quelle tante persone che non sono mai andate oltre la propria adolescenza?
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