Il bastone e la carota: i kumi jo e i kata dei ventordici

L’utilizzo del bastone come arma ha una storia vecchia come il mondo. Il bastone è di fatto lo strumento più economico e facilmente reperibile -molto più di una lama- e non stupisce quindi che sia parte della formazione di diverse discipline marziali.

Nel vasto programma dell’Aikijo, i combattimenti simulati -i kumi jo (組み杖)- forniscono una rappresentazione visiva di quello che poteva essere uno scontro tra due persone decise a prendersi a bastonate. Un grumo di fotogrammi dal sapore antico, cristallizzati da Morihiro Saito e offerti come strumenti di studio e di crescita per i praticanti di Aikido.

Come già scrivevamo a riguardo dei kumi tachi, anche in questo caso potremmo guardare ai kumi jo con una prospettiva squisitamente filologica e gradualmente perdersi. Ci si può interrogare sull’influenza dello Shinto Muso Ryu; di quanto appreso presso Sokaku Takeda; sul perché l’uso della baionetta inserita in fucili di vecchia fattura abbia potuto o non potuto ispirare Morihei Ueshiba nella strutturazione dei movimenti col bastone.

Ma il risultato sarebbe una narcolessia collettiva; la comunità dei praticanti di Aikido è già minoritaria e non è il caso di sfrondarla ulteriormente. Peraltro, su questi temi è già stato scritto e detto molto, con dubbia utilità per una pratica migliore.

Guardando ad una certa qual unicità dei kumi jo rispetto alle varie pratiche dell’uso del bastone nei vari stili di Aikido, il discorso potrebbe scivolare in un’altra trappola, quella della comparazione. E’ un dato di fatto che nel buki waza diversi stili di Aikido seguano impostazioni didattiche che non si rifanno all’Aikiken o all’Aikijo. Ne avevamo parlato rispetto al Kashima Shinto Ryu per quanto riguarda il bokken ed è vero anche per il jo. Se si segue Tada Sensei ci si imbatte nei kata 1a, 1b e così via. Nel Kobayashi Ryu, così come nelle proposte che furono di Chiba, Nishio, Satome, Tohei Sensei (per citarne alcuni) sono state trasmesse forme dello studio di armi tra loro diverse. Alcune orientate a kata finalizzati a mostrare la risposta col bastone ad un attacco col bokken. Altre a fornire quelli che verosimilmente sono fotogrammi dello stesso film che ha generato la codifica di Saito, presi in tempi, modi, sensibilità, influssi e capacità differenti.

Così, guardandosi in giro, si trovano proposte di kata degli 8 movimenti, dei 18, dei 22, dei 28 e via a salire, fino a 41, passando probabilmente attraverso quello dei ventordici movimenti, che secondo le leggende si trasmette solo telepaticamente ai decimi dan.

Guardando alla varietà (alla ricchezza?) di questi fenomeni, si può fare emergere un aspetto sottile che accomuna tutti gli esseri umani, e quindi anche i praticanti di Aikido. Gli errori cognitivi.

Le trappole mentali con cui la nostra mente cerca di giustificare le nostre scelte quando si confronta con altre realtà emergono chiaramente attraverso il giudizio.

Generalmente un praticante cresciuto nel buki waza dell’Iwama Ryu, guarda gli esercizi di Jodo proposti da altri stili e lo disprezza apertamente. Avviene del resto anche il viceversa.

Emerge insomma la tendenza della nostra mente a darsi ragione sulla base di quanti la pensano come noi (o quanti ci contrastano); sulla base di quanto investimento abbiamo fatto per cercare di ripetere come marionette qualche kata, non accettando supposte evidenze di aver perso del tempo e così via…

I kumi jo possono essere un’efficace medicina contro questi errori cognitivi; quantomeno uno strumento per renderli un po’ più evidenti. Per arrivare a quello, tuttavia, bisogna essere capaci di andare oltre l’ultimo e più profondo errore, che è quello dell’ancoraggio.

Perché sì, è vero che nelle intenzioni didattiche di chi ha codificato l’Aikijo, questo debba servire a offrire un continuo rimando alla pratica a mani nude e con il bokken. Però affidarsi a quelle prime informazioni date da una pratica contemporaneamente distratta e ossessiva del kumi jo, tipica del praticante medio, può far perdere di vista tutto il resto.

Ci esaltiamo a vedere alcune tecniche di tai jutsu emergere, riconosciamo le tracce di kotegaeshi, , intravvediamo nikkyo, shihonage, kiri otoshi…

Ma a che serve questo se non c’è costantemente attenzione ai principi sottostanti? Perché quando eseguiamo kotegaeshi a mani nude usiamo una routine, quando facciamo shichi no awase col bokken o il secondo e quarto kumi tachi ne usiamo un’altra e quando effettuiamo il sesto o ottavo kumi jo un’altra ancora? Giusto un po’ di carote che ci diamo mentre si usa il bastone.

In un’epoca (abbastanza lunga) in cui le regole di distanziamento consentono in maniera preponderante la sola pratica con le armi, i kumi jo restituiscono al praticante l’adrenalina del combattimento, quell’ingrediente che sgretola tutti i falsi costrutti.

Gestione del respiro, decisione dell’attacco, chiarezza delle intenzioni, utilizzo ottimizzato dei pesi e quindi degli spostamenti, chiara protezione del proprio centro, radicamento, assorbimento dell’energia, armonizzazione dinamica alla situazione, squilibrio, azione sulla catena cinematica del proprio compagno…

Elementi che sono tipici, fondanti, di ogni tecnica in ogni scuola in ogni disciplina. E che ovviamente ritroviamo anche nella ripetizione dei kumi jo.

Concludendo, in un mondo che evolve dinamicamente, sperimentando nuove forme, c’è spazio per tutto. Per i kumi jo e per il kata dei ventordici, a condizione che ci sia una didattica chiara e l’ingaggio di utilizzarli come strumento e non come fine.

Preservare la tradizione serve come trampolino per osare l’esplorazione dell’ignoto; diversamente si è responsabili di un mondo informe, dove nuovo e antico non possono essere né definiti né goduti, perché non esiste un limite, un punto di riferimento che dia valore e senso.

Disclaimer Foto di @thiszun (follow me on IG, FB) da Pexels

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Di seguito un estratto delle registrazioni dei kumi jo e del kumi jo del kata dei 31 movimenti. Buona visione!
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